Vederla sulla carta geografica sembra lei a tenere su lo stivale, incuneata com'è tra la Campania, la Calabria,
la Puglia e il mare (anzi i mari: si affaccia sia sul Tirreno che sullo Ionio). E invece nella storia e nell'economia del sud,
la Basilicata è stata come schiacciata dagli ingombranti vicini. Terra di luce e di magie, di re e di briganti, di poeti e di
contadini, per secoli è rimasta sospesa in una sorta di "tempo immobile".
Che cosa è successo
negli ultimi 50 anni in Basilicata?Naturalmente la storia della Basilicata inizia molto prima e la si può leggere, in forma
riassuntiva, di seguito.
Come una bella addormentata solo oggi si sta risvegliando, scoprendo le proprie risorse e capacità. Si lascia alle spalle un passato
che sa di sudore e campagna, di emigrazione e fatica di vivere e prova a camminare con le proprie gambe verso un futuro che parla
di elettronica e nuove tecnologie applicate all'agricoltura, di avveniristiche fabbriche d'auto e di pozzi di petrolio, ma anche
di una "natura" ancora incontaminata che è una ricchezza importante da non disperdere o danneggiare. E proprio per questo mix
di arcaico e di futuribile la Basificata è forse oggi la più misteriosa e intrigante regione d'Italia. Intrigante già nel nome
o meglio nei nomi, perché a differenza delle altre regioni ne ha due: Basilicata, ossia terra del basileus, imperatore bizantino,
o Lucania, terra dei lucani, l'antico popolo che vi abitava.
Prima di provare a raccontarla con gli occhi di chi ci è nato, ma ci ha vissuto troppo poco (per gli emigranti la Lucania è sempre
"A terra du ricorde", ossia la terra del ricordo, come l'ha cantata il poeta di Tursi Albino Pierro) sono d'obbligo alcune cifre:
con i suoi poco più di 600 mila abitanti sparsi su un territorio di quasi 10 mila chilometri quadrati, la Basificata è la regione
italiana meno densamente popolata.
D'altronde era difficile popolare un territorio fatto, per più di nove decimi, di montagne e colline, di fiumi che in realtà sono
torrenti, di vallate pronte a franare sotto i piedi. I primi che ci riescono, tra il 1300 e il 1200 avanti Cristo sono i Lyki,
tribù di origine anatolica che si stabiliscono a Sud dell'Ofanto, sulle sorgenti del Bradano e nella valle del Basento. Da loro
queste terre prendono non solo il nome ma anche una cultura diversa da quelle delle popolazioni vicine: i Lyki hanno proprie divinità,
un profondo culto dei morti e un grande senso di solidarietà e di democrazia. Ogni anno i capi famiglia eleggono in pubblici consigli
i meddices, ossia i propri governati, tutti sono tenuti a difendere il paese e non ci sono grandi disparità economiche. La terra
è equamente distribuita, non esistono la grande proprietà fondiaria né il latifondo: l'agricoltura è una fonte di ricchezza per
tutti. Le città lucane sono legate da un vincolo federativo, hanno una moneta comune e in caso di guerra eleggono un capo con
pieni poteri politici, civili e militari. E vale la pena ricordarlo perché la storia delle lotte contadine in Lucania si può
anche leggere, non solo come una richiesta di giustizia, ma anche come un inconscio desiderio di tornare ad una mitica età
dell'oro vissuta agli albori della civiltà.
Se i lucani costruiscono la democrazia e il senso di solidarietà sulle impervie montagne dell'interno, sulla costa, a partire
dall'VIII secolo avanti Cristo sono i greci a fondare colonie come Metaponto e Siris, sullo Ionio, Posidonia ed Elea sul Tirreno.
Tra greci e lucani non corre però buon sangue, ci sono lotte e guerre per il predominio sull'intera regione. Saranno i romani
a mettere fine a queste guerre: alleandosi ora con gli uni ora con gli altri, ridurranno tutti alla ragione. I lucani faranno
l'errore di puntare su Annibale e il risultato sarà che le loro città (Serra di Vaglio, Torretta di Pietragalla, Civita di Tricarico
tutte fortificate dall'architetto Nummelos) verranno rase al suolo, la regione diventerà una dimenticata provincia romana,
arriveranno, imposti dai nuovi padroni, il latifondo e la decadenza. Non migliore sorte toccherà ai centri costieri: Metaponto,
Siris, Heraclea e Pandosia perdono il loro splendore. C'è un sussulto con la rivolta di Spartaco, che ovviamente i lucani sosterranno,
subendo quindi una feroce repressione. Già allora per diventar qualcuno i lucani devono emigrare a Roma, come farà il poeta Orazio,
che da Venusto va nella capitale dell'impero a completare gli studi (e, con le debite proporzioni, più di recente i vari Beniamino
Placido, Saverio Vertone e Carmen Lasorella).
Per rivivere una nuova età felice la Lucania dovrà attendere il Medioevo e Federico II, che farà di Melfi la capitale del suo
regno e darà importanza e ricchezza alla regione. Oltre a disseminare di castelli e palazzine di caccia le verdi foreste del
Vulture (ne costruisce a Lagopesole, a San Fele e Montemarcone) l'imperatore degli svevi promulga nell'agosto del 1231 dal
Castello di Melfi le sue Costitutiones Regni Siciliae. Ma sarà un fuoco di paglia, morto Federico la Lucania tornerà nell'ombra,
tormentata dalla povertà e dalla malaria, che spopola le vallate e i corsi d'acqua e costringe in cima alle colline. Una nuova
luce si accenderà con i moti anti-spagnoli del XVII secolo e soprattutto con la rivoluzione napoletana del 1799, cui contadini
e borghesi parteciperanno occupando terre feudali e demaniali. Nasce in quegli anni il mito di una repubblica contadina, di cui
parla Raffaele Nigro nel suo romanzo I fuochi del Basento: i contadini lucani si inventano anche la loro bandiera, bianca e
attraversata da quattro bande azzurre come i fiumi della loro terra. La rivolta viene sedata dai Borboni e dai Sanfedisti e i
contadini pagheranno ancora una volta il prezzo di una feroce repressione. Quasi una prova generale di quello che accadrà
sessant'anni dopo con il brigantaggio. Dall'Unità d'Italia i contadini si aspetteranno la fine del latifondo e la distribuzione
delle terre demaniali; ma quando si rendono conto che il loro è solo un sogno, per sfuggire all'ennesima delusione e alla miseria,
si uniscono agli sbandati dell'esercito borbonico e danno vita a una disperata ribellione. Vogliono la terra più che il ritorno
dei Borboni: non otterranno né l'una né l'altro. Il cuore del brigantaggio è il massiccio del Vulture: qui si formano le prime
bande armate a cavallo, qui è il regno di Carmine Donatelli detto "Crocco". Come riferisce lo storico inglese Woolf "la guerra
civile che si scatenò in tutte le province meridionali tra il 1861 ed il 1865, definita dalle autorità brigantaggio, fu una
protesta sociale di massa contro il nuovo Stato, più che una dimostrazione di lealismo verso il deposto governo borbonico".
Con ferocia e determinazione l'esercito italiano, che poi è quello piemontese, guidato dal generale Pallavini, pur con gravi
perdite, sconfigge i briganti. Come monito le loro teste vengono esposte all'ingresso dei tanti paesi (da Melfi a Lagonegro,
da Muro Lucano a Ripacandida, da Viaggiano a Moliterno) che hanno appoggiato la rivolta. I contadini tornano nella loro condizione
di subalternità senza speranza, quella che alcuni decenni dopo racconterà Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli.
Nel frattempo ci saranno ancora l'emigrazione di massa verso l'America (tra il 1876 e il 1914 ad abbandonare la loro terra
saranno 383.190 "valigie di cartone", una cifra impressionante se si pensa che nel 1911 l'intera popolazione della Basilicata
ammontava a 474 mila abitanti), l'inchiesta Zanardelli, le prime leggi speciali in favore della regione. La Lucania, infatti,
è diventata un pezzo della più generale "questione meridionale", che vede impegnarsi intellettuali del calibro di Giustino Fortunato
o Francesco Saverio Nitti. Poi è storia di ieri: le nuove lotte per la terra dell'immediato dopoguerra vedono emergere la figura
di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta di Tricarico, autore, prima della precoce scomparsa, di poesie ma anche di inchieste sulle
condizioni di vita dei contadini (L'uva puttanella e Contadini del Sud). La riforma agraria degli Anni Cinquanta costella le
campagne di case coloniche presto abbandonate, da un lato perché i contadini preferiscono la vita comunitaria dei paesi, dall'altro
perché la nuova ondata migratoria degli Anni Sessanta porta i braccianti lucani nelle fabbriche di Torino e di Milano: Rocco e
i suoi fratelli cercano un improbabile riscatto tra le nebbie del Nord. L'ultima mazzata viene con il terremoto dell'80,
che distrugge interi paesi ai confini con l'Irpinia.
Oggi finalmente qualcosa si muove. Anche se la disoccupazione è ancora il fantasma più nero per i giovani lucani e la regione
è ancora fra le più povere d'Italia ci sono forti segnali di un nuovo sviluppo che non costringa più a cercar fortuna lontano
da casa. Nella piana che vedeva Federico II andare a caccia adesso Barilla sforna merendine, dessert e pasta (il grano duro di
queste zone è ottimo per fare spaghetti e maccheroni). Esiste, al confine con la Puglia, un "triangolo del salotto", con mobilifici
d'avanguardia. Nella piana di Metaponto si coltivano le fragole esportate m tutta Europa e l'Agrobios sta studiando le nuove
frontiere dell'agricoltura; a Tito Scalo il laboratorio di ricerche del Cnr lavora su progetti futuribili. Intorno a Stigliano,
un consorzio di Comuni, con il contributo della Cee, sta lanciando forme di turismo che salvaguardino gli antichi centri storici
e coinvolgano gli anziani; inoltre i Sassi di Matera sono diventati patrimonio universale dell'Unesco. E proprio a Matera, che
ha visto Renzo Piano studiare le possibilità di recupero dei Sassi, nascono centri commerciali disegnati da architetti giapponesi
(d'altronde fu proprio nei pressi della città lucana che negli Anni Cinquanta Adriano Olivetti sperimentò alcune sue teorie sulle
comunità rurali, creando il borgo La Martella).
E da poco nella Valle dell'Agri zampilla il petrolio dai pozzi dell'Agip e si spera che dia qualcosa di più delle illusioni che
suscitò il metano nella valle del Basento alcuni decenni or sono. L'acqua, un tempo dannazione(fino agli Anni Settanta, in molti
paesi vi arrivava solo per alcune ore al giorno) oggi è invece una risorsa sfruttata, con le grandi dighe del Pertusillo, di Monte
Cutugno e di San Giuliano. Nascono a Matera consorzi come Sapori lucani che mettono insieme un pool di aziende agroalimentari
per far conoscere ed esportare in tutto il mondo i prodotti tipici di questa terra (dalla pasta, alle conserve, dal pane di grano
duro all'olio). Tra l'altro, in campo sportivo, proprio Matera è diventata una sorta di capitale della pallavolo femminile conquistando
scudetti e coppe a raffica. Insomma la Basilicata sta percorrendo velocemente la sua strada verso il futuro, e può forse finalmente
guardare, senza complessi, al suo passato di miseria. Anzi forse può fare di questo passato e della sua memoria una risorsa.
In Basificata, infatti, come in un grande museo a cielo aperto, si può ripercorrere il lungo cammino della lotta fra l'uomo e
la natura. Una lotta che parte dalle antiche civiltà rupestri dove l'uomo trova nelle grotte il suo habitat. La civiltà delle
grotte, che non è sempre stata sinonimo di miseria e povertà, ha nei Sassi di Matera la sua massima espressione. "Le grotte -
racconta l'architetto Pietro Laureano, che ha curato la relazione sui Sassi per l'Unesco, nel bel volume La piramide rovesciata,
edito da Bollati Boringhieri - sono state il centro di una intensa attività economica e produttiva. La terra appulo-lucana,
naturalmente arida e desolata, vivificata dal lavoro dell'uomo è diventata in passato un giardino di vigne e ortaggi, un sistema
di oasi dove l'ulivo aveva la funzione della palma". Le tracce di questo passato si trovano oggi girando per i Sassi, splendido
presepio mozzafiato scavato nella roccia, tra case e grotte e fontane e chiese (non a caso qui Pasolini girò il suo Vangelo
secondo Matteo e Mel Gibson il suo film: The Passion of the Christ). Reperti delle antiche civiltà si trovano sempre a Matera
al Museo Ridola, che prende il nome da Domenico Ridola, medico, archeologo e sindaco della città nel secolo scorso.
Nella sua lotta contro una natura aspra e difficile, in Lucania l'uomo si è spesso affidato a una religiosità quasi pagana e a
un Dio tutto sommato crudele. Riti e credenze magiche come il malocchio, la fascinazione e la possessione sono stati di casa fino
a non molto tempo fa nella cultura di queste zone. "La magia del Sud - scriveva negli Anni Cinquanta il grande etnologo Ernesto
De Martino - non è soltanto costituita dai relitti di arcaici rituali che cadono in desuetudine ogni giorno che passa, ma anche
dalla particolare accentuazione magica del cattolicesimo meridionale: e qui già non è più possibile parlare di logori relitti e
di forme di vita magico-religiosa che non abbiano importanza attuale per tutti gli strati della società meridionale". De Martino
in Sud e magia e nella Terra del rimorso ha raccontato credenze e rituali magici cui ci si affidava in caso di malattia o di
avversità, ha parlato del tarantismo di Tricarico e delle credenze di Ferrandina o di Pisticci, di Viggiano o di Marsico Vetere
e di un paese il cui nome in Lucania ancor oggi si pronuncia con difficoltà perché dicono porti sfortuna. Tracce di questa arcaica
religiosità si incontrano ancora nelle feste patronali, che non sono più quelle d'un tempo, ma anche nell'epoca della televisione
riescono ad offrire inaspettate esplosioni di vitalità. Innanzitutto il santo patrono è una sorta di divinità. La sua immagine
campeggia insieme al rosario e alle foto dei parenti emigrati chissà dove in tutte le case: per ingraziarselo si dà il suo nome
almeno ad uno dei propri figli. Così, ad esempio, a Tolve, in provincia di Potenza, sono pochi quelli che non si chiamano Rocco,
mentre ad Irsina, l'antica Montepeloso, in provincia di Matera, Eufemia è il nome ancor oggi più gettonato. Per la festa del paese
si formano appositi comitati, che raccolgono fondi e organizzano i festeggiamenti, con tanto di luminaria, fuochi d'artificio e
concerti (un tempo si cercavano le bande più famose, anche dall'Abruzzo o dalla Puglia, oggi si chiamano i cantanti o i gruppi
più famosi, quelli che si vedono spesso alla televisione o si sentono alla radio). Il giorno della festa (tra le più "sentite"
ancor oggi è quella in onore della Madonna della Bruna il 2 di luglio a Matera) c'è la processione con la statua del santo portata
a braccia e ricoperta d'oro e di banconote offerte dai fedeli. E un tempo a seguirla in ginocchio c'erano file di flagellanti,
bambini vestiti con il saio e donne piangenti ad implorare chissà quale grazia. Un misto di paganesimo e di cristianesimo
accompagnava i riti della morte, con il pianto rituale e un lutto che si protraeva per anni, per cui ancor oggi i paesi lucani
sono costellati di anziane signore vestite di nero. Per non parlare delle feste nuziali, che portavano via un'intera giornata:
alla cerimonia in chiesa segue infatti il pranzo di nozze che va avanti almeno fino alle cinque del pomeriggio, a sera ci si
ritrova per il ballo e la distribuzione dei confetti.
Feste patronali e banchetti nuziali sono anche un'occasione da non perdere se si vogliono assaggiare le specialità della cucina
lucana, una cucina povera ma ricca di sorprese come i cavatielli o le ricchitelle (orecchiette) con il sugo di agnello
o le cime di rapa, le lagane (tagliatelle) con i ceci e il peperoncino, la tianedda, carne di montone stufata nella terracotta.
Tipici sono poi gli gnumurriddi, ossia le interiora di agnello, avvolte nel budello e cotte alla brace, e gustose le soppressate
e le salsiccie (dalla Lucania prendono il nome le luganiche diffuse nel Nord Italia). Fra i dolci, di probabile origine
orientale, ci sono le mastaccere, paste secche ricoperte di glassa, e i pizzetti, biscotti spaccadenti fatti con il vin
cotto di fichi. Il tutto innaffiato dall'Aglianico del Vulture.
Per chi voglia scoprire, a poco a poco, il fascino antico e mitico della Basilicata uno degli itinerari possibili parte da Bari:
nel capoluogo pugliese si sale sulla ferrovia, un tempo chiamata calabro-lucana e oggi appulo-lucana, che porta, molto lentamente,
verso Potenza. Il treno si ferma ogni tanto senza apparente motivo e si incontrano lungo il percorso infiniti silenzi e stazioncine
da favola, si vedono volteggiare falchi e rapaci, si ha intorno un paesaggio fatto prima di murge, aride e non coltivate, e poi
di terra brulla e campi bruciati a perdita d'occhio, si vedono in lontananza, alti e bianchi sui loro colli, paesi assolati dai
nomi strani come Ripa d'Api o Genzano o Cancellara. Se poi è primavera ci si ritrova in un mare di spighe verdi che il vento fa
ondeggiare, insieme al rosso dei papaveri; ci si perde, sotto un cielo senza fine, a guardare i pali del telegrafo o le case
coloniche abbandonate in mezzo ai campi, uniche tracce umane in quell'esplosione di natura... E si può forse anche essere felici.